Umido da buttare

“Sostanzialmente” mi fa rompendo il silenzio di un afoso tardo pomeriggio, “sei un onanista. Te ne stai là, su quella poltrona più sbrindellata e lurida di te, la mano nelle mutande macchiate, senza fare nulla. Ti gingilli l’uccello tutto il giorno, mentre dovresti badare a trovarti un lavoro, piuttosto”.

È accaldata in viso, il cespo di capelli arruffati sprizza tutt’intorno le sue ciocche biondo cenere, che le ricadono sugli occhi e sul naso, appena appena un po’ grosso al centro dell’ovale abbronzato. Però ha un bel culo, grosso e tondo, che preme contro la vestaglia di tessuto leggero. Lo vedo bene mentre mi sfila davanti ondulante e regale, schiaffeggiando l’aria immobile fino al frigo e quasi mi sembra che mi strizzi un ipotetico occhietto quando tende al massimo il tessuto che lo copre, in virtù del piegamento in avanti della sua padrona, intenta a cercare qualcosa negli ultimi ripiani. Veronica stana la bottiglia, si versa da bere e accende una sigaretta al mentolo, sbuffando il fumo verso il ventilatore a stelo che ronfa pigramente, come il nostro gatto acciambellato su un cumulo di panni sull’ottomana.

“Non fai niente tutto il giorno” prosegue sedendosi accanto al tavolo, “leggi incomprensibili libri di fuori di testa e scrivi porcate su quel portatile, roba buona per porci come te, e intanto il mondo va a rotoli e la crisi ci fotte, ma a te che importa, ti credi superiore tu. Sei senza un briciolo di iniziativa, invece, sprovvisto di qualsiasi ambizione, indolente, pigro, abulico”.

Vorrei risponderle, magari erudirla sulla più che accreditata tesi che considera solo l’esistenza di una buona e una cattiva letteratura, piuttosto che roba per porci e, di contro, prelibatezze per pseudo-artisti, come taluni suoi amici che mi propina sempre più spesso, ma mi piacciono tanto questi suoi monologhi e l’escalation studiata che poco riserva all’improvvisazione, affezionata com’è a pochi ma fertilissimi argomenti di sicura presa, capaci di mettere knockout chiunque sia in dotazione di una verruchetta di orgoglioso amor proprio. Ma non è il mio caso, o almeno non lo è in questa circostanza e con lei, perciò taccio, sedotto dall’estetica della situazione e concentrato a registrarne ogni dettaglio e sfumatura. “Continuiamo a vivere in questa topaia perché, così dici, ti è d’ispirazione, è il mio background” ripete con voce tronfia e canzonatoria, allungando il collo e facendo oscillare la testa nel buffo tentativo di parodiarmi.
“E mi sta anche bene” riprende seria, “qui mi trovo benissimo, non è questo. Ma se è del background che hai bisogno, cazzo fallo fruttare, scrivi qualcosa di decente, per la miseria. Per dire, Saviano qui, in una catapecchia proprio come la nostra, due traverse dietro questo fatiscente palazzo, ci ha tirato fuori Gomorra! Ora, al di là dei paragoni, perché, senza offesa, ma là stiamo parlando di uno scrittore vero, non di un pippomane, tu nel tuo piccolo potresti anche impegnarti un pelino in più, visto che l’italiano lo conosci e una storia potabile da qualche parte dentro di te potresti anche averla, altrimenti leva mano e fai fruttare almeno la laurea. O ti serve soltanto per le lezioni private, ‘sta laurea, a pochi euro per giunta?” Pausa. Una pausa da teatrante consumata che sa come dare slancio alla spannung del suo monologo. Un sorso di vino, una scrollata del capo con le labbra serrate e tirate, a mimare l’effetto di chi non può credere a quanto sta per dire, e via, altro assolo ficcante: “Ma dico, ti faceva tanto schifo restare all’università appresso al tuo professore? Cazzo, a quest’ora avresti finito anche il dottorato, saresti ricercatore, assegnista, quello che è, insomma, avresti avuto uno stipendio, uno straccio di stipendio, d’accordo, ma decoroso e fisso, con sviluppi di carriera, sarebbero cambiate le nostre prospettive, avremmo potuto cominciare a coltivare qualche ambizione, visto che la parola sogno ti disgusta. Niente di straordinario, eh, giusto quel paio di cose per le quali la gente normale si mette insieme e si alza la mattina. Invece, guardatelo lì, il grand’uomo! Ti accontenti dell’assegno di disoccupazione, fin quando t’arriva, ed è così che pensi a una famiglia? Eh già, non ci pensi mica tu, è roba meschina da persone normali”.

Anche le gambe mi danno il capogiro. Le ha accavallate e l’orlo della vestaglia le è scivolato di lato, così che posso vederle bene, massicce, sode e tornite come colonne greche. 
Mi viene duro.

“Eccolo lì il grande poeta che si mena l’uccello. Ma quanto ti piace darti ‘ste arie da bohémien. Pubblicassi qualcosa di decente, almeno. Anzi, pubblicassi qualcosa! Non dico un bestseller, non saresti nemmeno in grado di scriverlo un bestseller, ma almeno un romanzetto, una raccolta di racconti, che so, un libro di poesie… qualcosa che ti faccia almeno pagare l’affitto, santocielo!” 

Spegne la sigaretta in una tazzina da caffè e tira su una gamba sul tavolo. Dalla tasca della vestaglia recupera una boccetta di smalto rosso, ne svita il tappo, lascia scolare sull’orlo il colore superfluo e, diligentemente, passa il pennellino sulla superficie avorio delle unghie ben curate. Il frrr frrr di quell’azione graffia l’aria pesante, infondendomi un benessere denso di poesia. Inoltre, la posizione assunta per questa abluzione apre ancor di più i lembi della vestaglia, così che posso vedere il pelo folto della passera, riccio e scuro come astrakan. Me lo meno lentamente, senza tirarlo fuori dalle mutande.

“C’è da buttare l’umido, cazzo! Lo senti ‘sto puzzo? Nemmeno questo puoi fare, devo pensarci sempre io. Che gran figlio di puttana sei” sbotta esasperata. “Vieni qui a soffiarmi sulle unghie… fa’ almeno questo”.

Mi alzo dalla poltrona e avanzo verso di lei barcollando come se pestassi delle braci, ora con una zampa ora con l’altra, prendo un piede in mano, il sinistro, e ci soffio sopra. Mi arriva un afrore di sudore misto a bagnoschiuma alla malva, ma sono concentrato sulla passera, una fica grossa come un fiore carnivoro con le labbra rosse, voraci, insaziabili.

“Porco, ce l’hai duro come un ramo, tra poco bucherà le mutande”, dice con voce roca guardando l’erezione che deforma gli slip e che la punta come una fottuta baionetta. Deglutisce con una smorfia lasciva, poi, rapida come una faina, tira giù le mutande e il cazzo vibra come un diapason rampando sotto l’ombelico peloso. “Animale schifoso, hai sempre voglia di fottere, non pensi ad altro. E chiavami allora, fammi vedere se ne hai la forza. Sempre se ti è rimasta qualche goccia di sbrodo nelle palle”.

Il tono e le parole da postribolo sudamericano di terza lega mi infoiano come una scimmia sotto acido. Mi carico entrambe le gambe sulle spalle, infilo le mani sotto le ascelle e la sollevo di peso dalla sedia, sbattendola con poca grazia sul tavolo e infilandoglielo dentro senza cerimonie, d’un colpo solo fino alla radice, e la pompo subito a buon ritmo, con i coglioni gonfi che sbattono contro la potta producendo uno CIAF CIAF che mi manda fuori di testa.

“Aaahhh” grugnisce, “lo sento nello stomaco. Chiavami forte, stronzo, aaahhh sssììì, così, cooosssììì, porco bastardo!”

Quando strabuzza gli occhi all’indietro e prende a sfregarsi freneticamente il clitoride, capisco che ci siamo quasi, e levo il morso all’orgasmo che mi gorgoglia nelle viscere, menando i fianchi più veloce e forte che posso, tenendomi abbrancato alle bocce piccole ma sode, sormontate da capezzoli duri e sugli attenti che sfrego con voluttà fra i pollici e gli indici, mentre lei spalanca la bocca e rauca, lussuriosamente rauca, urla: “Veeeengoooo, figlio di un cane, aaaaaaaaaahhhhhhhh.” 
Un istante dopo le innaffio i visceri con tutto quanto ho dentro.

*

Riemerge dalla camera da letto un’ora abbondante dopo, profumata come un fiore a primavera, gonna larga a fantasia arabeggiante e top nero che le lascia scoperta una striscia di carne abbronzata, al centro della quale spicca la fossetta dell’ombelico. Non ha reggiseno, le si vedono in rilievo le punte dei capezzoli. Ha un portamento regale per natura, Veronica, e, fuori dalla nostra cerchia erotico-sessuale, ha modi eleganti, quasi affettati, indotti dall’educazione ricevuta e affinati dalle lauree conseguite con lode e perfezionate all’estero. È nel campo semantico che ci siamo costruiti in anni di relazione che dà sfogo all’altra sua natura, quella passionale, oscena, volgare, triviale, zozza. 

“Dove vai così in tiro?”, le chiedo squadrandola in lungo e in largo, intimamente apprezzando i rilievi sinuosi di un corpo terribilmente arrapante, che trasuda sesso selvaggio da ogni fottutissimo porellino.

“Vado ad una festa popolare, c’è un gruppo forte e si balla sul serio stasera”, dice improvvisando un paio di passi di pizzica, menando i fianchi e agitando le mani sulla testa come se avesse due paia di nacchere da far schioccare.

“Con chi vai?” 

“Con un po’ di gente, che vuoi la lista?”

“Mi basta sapere solo se c’è anche quella vacca imbracata di Mirna”, bofonchio acido.

“Non voglio che l’appelli così” mi guarda torva, stringendo appena le palpebre minacciosamente. “Mirna è una mia cara amica e una gran donna, una che non s’è fatta mettere i piedi in testa da nessuno e si è fatta valere con la sua intelligenza in ambienti da sempre maschilisti. Dovresti stimarla, anziché offenderla. Specie perché ti vuole molto bene e, vai a sapere per quale motivo, ha una grande considerazione di te. E comunque sì, ci sarà anche lei. Tu che fai, vuoi venire?”

“Non avevo dubbi. Torno tardi. A dopo” chiosa sbrigativa. Mi schiocca un bacio sulle labbra, rapidissimo, e si volta per andar via, ma faccio in tempo ad afferrarla per un lembo della gonna tirandola a me. Lei perde l’equilibrio e finisce seduta dritta sull’erezione. “Cristo santo, no!” sbotta spazientita, “devo andare, è tardi, sono già le 16 e ci vogliono due ore di macchina… non pensarci proprio!”. Non le do retta e ravano sotto la gonna, scoprendo il grosso culo nudo, visto che il filo del perizoma si è insolcato in quel giardino delle delizie che è il suo interno chiappa. “Fermo, cazzo, FERMO”, e si tira su, divincolandosi con forza esasperata. “Fai schifo”, mi dice aspra. Ma io lo tiro fuori lo stesso, duro e dalla testa gonfia e violacea.

“Facciamo veloce” rantolo, mentre prendo a menarmelo con furia. Lei sbuffa e si tira su la gonna. Il perizoma è di quelli retati, così che possa bearmi della folta e ricciuta criniera che le ricopre disordinatamente il monte di Venere e che preme contro la velatura. Tenendo l’orlo della gonna in una mano, con l’altra prende il posto della mia.

“Prova a sporcarmi la gonna con la tua schifezza e giuro che non la rivedrai per il prossimo mese” minaccia truce. Quindi si posiziona a cavalcioni delle mie gambe, scarta di lato il filo del perizoma e inghiotte il cazzo per intero e in un sol boccone.

*

Sono di parola… facciamo subito. Dopo di che afferra la borsa dal tavolo con un gesto platealmente seccato, recupera un paio di salviette umidificate, che mi tira addosso dopo essersele passate fra le cosce, detergendosi la fica, si acconcia la gonna e il top e si chiude la porta dietro le spalle, bofonchiando un veloce saluto. 

Senza prendere l’umido.

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