Licenziamento

Quando quel pusillanime di Alfonso, con una ghigna maligna e soddisfatta – che, per quanto possibile, gli deformava il volto già deturpato in partenza dal sadismo della natura, dalla quale aveva beffardamente ricevuto in dono una fisionomia tutta bozzi e infossature, molto prossima a una maschera di cera calpestata da un’orda di barbari in festa al carnevale di Venezia – e col suo tono stridulo, arrochito dalle Camel di contrabbando, mi ha comunicato che ero desiderato – e qui non è riuscito a trattenere, sulla terza sillaba, un raschio che nelle intenzioni voleva essere un risolino, ma che di fatto sembrava il verso di un gatto malconcio vittima di un attacco d’enfisema polmonare – in Direzione, ho subito intuito che non era certo per un avanzamento di carriera. Perplesso, mollo lo scatolo pieno a metà di ceramiche di Capodimonte, incellofanate e incartate in fogli di plastica trasparenti tenuti stretti per gli orli da un filo di rafia, mi tiro su e seguo il capo-reparto verso le scale. Mentre tallono la figura claudicante che mi oscilla davanti, tipo un orso tozzo e zoppo che ha ancora voglia di ballare il tip-tap davanti un pubblico di terza categoria, vaglio velocemente le ipotesi di quella convocazione. Sono entrato sempre in orario, ho rispettato tutti i turni, senza battere ciglio ho lasciato che lo straordinario richiesto non risultasse nella mia busta paga, non mi sono intrattenuto con i delegati del sindacato né firmato petizioni di alcun genere, insomma sono stato manodopera sfruttata silenziosa e obbediente, quindi il motivo può essere solo uno e riconducibile proprio a quella sottospecie di urside che mi precede e che ogni due passi raschia muco dai recessi putridi dell’esofago, lo amalgama per bene schiacciandolo sotto al palato e, usando la lingua come toppa di una fionda, sparacchia il bolo verdastro sulla sua spalla destra, centrando tutto ciò a cui mira, come il più lercio dei lama da circo. Eppure, una verruca di dubbio mi rimane, non fosse altro perché la storia risale ad un paio di mesi fa. Perché verrebbe fuori soltanto adesso? Sono troppo pessimista, penso, sicuramente si tratterà di altro. Ma la speranza evapora a pochi passi dalla porta di ferro della Direzione.

“Ci vediamo, bello” mi fa quella merda di Alfonso, abbozzando quello che dovrebbe essere un sorriso, ma che gli squarcia la faccia come un baratro apertosi nel centro di Pompei, scoprendo resti gialli e melmosi, vestigia di un’antica dentatura. “Così la prossima volta impari a tenerti il cazzo nelle mutande” aggiunge e, accennato un mezzo inchino, mi lascia davanti alla porta, basito e con una rabbia che sento montare acida dal profondo delle viscere. Brutto figlio di puttana, gli sibilo dietro con odio. Dunque, non ci sono dubbi. Il motivo della mia convocazione – e del conseguente licenziamento, su questo proprio non ci piove – è quella storia lì, vecchia di mesi, quando ancora lei non era tornata a casa ed io ingannavo l’attesa sollazzandomi con Gina dell’Ufficio amministrativo, pallino e amante occasionale (quando le conveniva, chiaramente) del capo della baracca. Una sera Alfonso ci scoprì e deve essersi tenuto il jolly da giocarsi al momento opportuno. In realtà, io non m’ero accorto di niente, fu Gina a dirmi, mentre mi riallacciavo le braghe e lei si tirava su le mutandine verde pisello, che Alfonso era stato a guardarci tutto il tempo e, dall’espressione che aveva in viso, ne aveva anche dedotto che si stava masturbando alla scena.
“Come fai a dirlo?” le chiesi allora accendendomi una paglia di mota, regalino di Totonno, l’inserviente del turno di notte.
“L’ho visto, l’ho fissato negli occhi tutto il tempo” fece lei con nonchalance, acconciandosi con rapidi colpetti le curvature corvine del suo caschetto alla Valentine di Crepax.
“Cioè, mi stai dicendo che mentre scopavamo tu guardavi lui?”
“Sì”.
“E perché?”
“Mi eccita. Mi eccita da morire” dichiarò con civetteria, passandosi sul muso un rossetto rosa shocking e valutandone l’effetto arricciando ripetutamente le labbra in uno specchietto da viaggio.
“Ah” commentai secco passandole la canna. Gina aspirò avidamente, poi cacciò due lance di fumo dalle narici.

A quel punto cercai d’immaginarmi la situazione. Gina era seduta su uno scatolo, le lunghe gambe allacciate alle mie reni che all’in piedi ero conficcato dentro di lei come un chiodo nel muro, un suo seno prestato all’avidità della mia bocca, e da dietro un’altra pila di scatole la pelata sudaticcia di Alfonso che emerge, la bocca deformata da un ghigno di voluttà, la mano callosa e ispida che fruga nella patta della tuta blu scuro, che recupera un pene tozzo, tarchiato, ma incredibilmente largo, e comincia a menarselo, mentre i miei colpi si fanno più decisi e frequenti e le grosse tette di Gina sobbalzano, cozzano tra loro, si sbattono in un ciaf ciaf come di pioggia, e le labbra si schiudono, la lingua saetta di fuori e tratteggia i contorni della bocca, mentre lo sguardo aggancia irrimediabilmente quello inespressivo da pesce lesso di Alfonso, che a sua volta le rimanda occhiate oscene, mangiandosela con occhi grigi e famelici.
“Be’” conclusi, “effettivamente è abbastanza eccitante”.
“Che ti dicevo?” mi sorrise dandomi un colpetto tra le gambe ed imboccò il corridoio d’uscita, ancheggiando perfettamente in equilibrio su tacchi lunghi e sottili come matite.
Ora che la scena incriminata m’è venuta in mente con nitidezza, in ogni dettaglio, non resta che tener botta e vagliare l’atteggiamento giusto da adottare. Scelgo quello sprezzante e menefreghista. Tanto oramai il dado è tratto. Mi stiro la tuta da lavoro con un rapido passaggio delle mani, mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse e, ringalluzzito, chiudo la destra a pugno per bussare. Ma subito ci ripenso e afferro la maniglia. Sprezzante e menefreghista, si è detto. Spalanco la porta e la richiudo alle mie spalle.
“Non ho sentito bussare” mi fa brusco l’uomo che siede dietro una scrivania sovraccarica di faldoni e fogli sciolti, senza alzare gli occhi da una mazzetta di fatture.
“Nemmeno io” gli rispondo a tono lasciandomi cadere su una poltroncina similpelle e accavallando sfacciatamente le gambe su un faldone zeppo di carte e dalla copertina di cartoncino grigio scrostato dal sole.
“Cazzo stai facendo, guagliò” mi abbaia contro con rabbia, schizzando saliva ovunque.
Quell’uomo è furioso e confesso che m’intimorisce parecchio, ma mi fingo calmo e scostante. Recupero una sigaretta dal taschino, prendo un fiammifero da una scatola che è lì sulla scrivania, lo sfrego sulla minerva e accendo. Poi, gettando il fumo verso il soffitto, chiedo:
“Voleva vedermi, capo?”
“Continua, continua pure con questo atteggiamento da coglione fatto” comincia lui di colpo rabbonitosi, “tanto, se Dio vuole, questa è l’ultima volta che vedo quella tua grandissima testa di cazzo!” e prende a rovistare tra i fogli che ha davanti.
“Puoi dirlo forte!” ribatto con una ghigna sardonica che lo manda su tutte le furie.
“Che vuoi dire, animale?” ringhia sputazzando.
“Nulla, solo confermare che ho una gran bella testa di cazzo!” e sbuffo il fumo nella sua direzione.
Deglutisce amaro, ma subito si ricompone e mi porge una busta gialla e un po’ sgualcita.
“Cos’è?”
“Lo stipendio di questo mese, con un po’ di anticipo. Adesso te ne vai in ferie, poi ti scatta la cassa integrazione e te ne vai affanculo una volta per tutte” dice in tono serio e di colpo professionale, “Non posso licenziarti, altrimenti mi romperesti il cazzo con quei tuoi stronzissimi amici comunisti, buoni solo a garantire il lavoro a quelli come te, ma puoi stare certo che questa è l’ultima volta che guardo la tua faccia”, e rinfodera lo sguardo in occhialini rossi da presbite ripuntandoli sui suoi conti.
Do una sbirciata nella busta. Lo stipendio c’è tutto, lo stronzo si è cautelato. Tiro le zampe giù dalla scrivania, mi alzo in piedi. Lo guardo dall’alto per un po’.
“Ehi, capo” dico.
“Stai ancora qui? Che cazzo vuoi?”
“Be’, volevo salutarLa” e gli tendo la destra.
Lui fa un gesto di disprezzo, allora giro sui tacchi e mi avvio verso la porta. “Ah” dico voltandomi, “se questa è la paga, tenetemi sempre presente quando vi occorre” e, strettomi in mano la sporgenza dei calzoni, gli mostro oscenamente la patta gonfia.
“VAI A FARE IN CULO, STRONZO!” mi urla tirandomi dietro un posacenere di marmo che, se mi avesse colpito, mi avrebbe mandato al Creatore per direttissima. Fortunatamente va a fracassare un ritratto di una vecchia appeso alla parete, un mezzo metro dal mio orecchio sinistro.
Esco ridendo fragorosamente, mentre il bastardo recupera tra i vetri la vecchia foto, piagnucolando “mammà, mammà… è stato per colpa e chillstrunzemmerd!”
*
La gag consumatasi in Direzione mi ha messo di buonumore, nonostante il licenziamento, ma adesso, alla terza Corona, seduto al tavolino di un bar nella zona universitaria, percepisco con nettezza una punta di depressione che, già lo so, a breve deflagrerà in tutto il suo devastante strascico di paturnie. Cosa farò nel caso probabilissimo che la cassaintegrazione abbia i rubinetti chiusi? Dovrò dirlo a lei – è questo che mi angustia sopra ogni altra cosa, anzi è solo questo ad angustiarmi – e lei comincerà a rompere i coglioni, sacramenterà su come non possa tenermi in carico, che lei si smazza tutto il giorno mentre a me sta benissimo vivere di disoccupazione, che non è con questo spirito fallimentare che si può decollare come coppia e pensare a qualcosa di più grande, che mi manca l’ambizione, che se tenessi un po’ a lei mi darei da fare per darle una vita dignitosa e bla bla bla, fin quando non preparerà le sue cose – non tutte, chiaramente, il grosso lo lascerà come presidio – e se ne andrà sbattendo la porta. Stronza! Tuttavia, decido di rimandare il problema e di trattenere per i capelli ciò che rimane dell’euforia della giornata. Lascio una buona mancia sul tavolino e, mani in tasca, risalgo via Mezzocannone, fischiettando un motivo degli AC/DC, un lievissimo refolo di note distorte immediatamente risucchiato dal traffico della mezza.
*
Ci metto 20 minuti buoni ad arrivare a Largo Montecalvario, nel cuore dei Quartieri spagnoli. Arrivato sotto casa scambio un paio di battute con Dudù, il nordafricano che ha la sua bancarella di cianfrusaglie appezzottate accanto al mio portone, notoria attività di copertura per il più redditizio spaccio di stupefacenti di ogni tipo. Sempre senza togliersi dalla bocca la radice di liquirizia, m’informa che gli è arrivata dell’erba speciale e una bianca che ti manda dritto sull’ottovolante. Dice proprio così, ottovolante – rimasuglio morfo-iconico della sua precedente vita da factotum al servizio di un giostraio rumeno, abbandonato con una cospicua quota dell’incasso una volta stanziatisi a Ponticelli. Prendo entrambe, sia l’erba che la coca, mollandogli in mano due pezzi prelevati dalla busta gialla, dello stesso colore delle sue iridi sgranate sul mio malloppo. “Hai vinto alla lotteria, fratello?” mi fa ghignando. “Magari, fratello, magari” faccio imboccando il portone e salutandolo dandogli le spalle, con la mano alzata sulla testa.
*
Salgo le scale con passo lento e accorto. Il palazzo è come sempre immerso nell’oscurità – eccezion fatta per la piccola corte che riceve un lembo di luce dal ritaglio dei tetti – e non si sa mai cosa ci sia su quelle scale in pietra, annerite dal tempo e da milioni di passi susseguitisi in quasi 500 anni. Abito all’ultimo piano, in una mansarda esposta ad ovest, verso il mare. Un ambiente unico con bagno, diviso da scaffali e librerie per separare la zona giorno dalla camera da letto. Recupero le chiavi ed entro.
Lei è sul divano, davanti la tv. La vestaglia spalancata a mo’ di sipario sul corpo nudo e abbronzato omogeneamente abbronzato, va detto per dover di cronaca, privo quindi della dicromica, e pur arrapante, presenza di bianco intorno ai seni e al triangolo del pube, in virtù della tintarella integrale che ama prendere sul terrazzo, distesa e ondeggiante sull’amaca, e pigramente offerta alle lubriche attenzioni degli scugnizzi del palazzo, che sfidano le precarietà dei tetti malmessi per venirsela a pappare con gli occhi, dandosi di gomito e scambiandosi commenti con gli occhi e con eloquenti gesti per non far rumore, e scartavetrandosi come dannati le erezioni vigorose di adolescenti in perenne calore – sulle tette piccole ma sode, ornate da capezzoli turgidi di un rosa vivo, simile a due fragole non ancora del tutto mature, sul ventre liscio appena in rilievo per la dolce curva di un accenno di pancetta, sulla cui sommità spunta il bottoncino dell’ombelico unito dalla lieve sfumatura della linea alba alla riccia e folta boscaglia che disordinatamente ricopre il Monte di Venere. Una gamba a cavalcioni del bracciolo, il piede che ciondola mollemente, l’altro poggiato con la pianta sull’orlo del tavolino, pieno di avanzi di cibo, bicchieri e tazzine da caffè sporchi. Dal posacenere zeppo di cicche esala un sottilissimo filo di fumo, che languisce verso le travi tarlate del soffitto. Nell’aria ristagna un intenso odore di marijuana. Nella mano sinistra regge una lattina di birra chiara, la destra l’ha fra le cosce, ad accarezzarsi le labbra umide della fica. Sta rivedendo Troy, forse per la centesima volta. Sempre la stessa scena, lo stesso fotogramma: Brad Pitt che si alza dalla branda, completamente nudo, il culo scolpito in primo piano.
“Quanto cazzo è bono – commenta sfregandosi il clitoride – quanto me lo chiaverei”. E butta giù un sorso. Prende il telecomando, schiaccia il tasto del rewind. Stop. Play. “Mmmmm”.
“Ciao” dico e mi siedo sulla poltrona. Come risposta ho un’occhiata di sbieco e un impercettibile movimento del mento verso l’alto. Agito giusto per scrupolo qualche lattina vuota sul tavolino. Poi dal posacenere recupero un mezzo spinello e la scatola di svedesi. Accendo e do qualche rapido tiro, scottandomi le labbra. La cucina è uno schifo, osservo desolato. Ci vorrà una buona ora solo per lavare piatti e bicchieri, sempre che il lavello non si sia ancora una volta intasato. Non che il resto della stanza verta in condizioni migliori: vestiti appallottolati ovunque, tele accatastate in ogni dove, barattoli di vernice che hanno scolato colore sul pavimento, bacinelle traboccanti acqua color sperma e frattaglie di creta, il secchio dell’immondizia che vomita gli avanzi di una settimana, abbozzi e aborti di sculture fanno oscena mostra di sé nei posti più improbabili. Sembra che sia scoppiata una bomba nell’atelier più scalcinato di un sobborgo di Parigi. Perché Parigi, poi? Facciamo Napoli, visto che tra l’altro stiamo pure in un sobborgo – sebbene non dei peggiori. Rewind. Stop. Play. “Oddio, oddio, oddio… eccolo che si alza… Aaaah”. Adesso si sta proprio masturbando, con la testa reclinata sulla spalliera, indice e medio sinistri nella passera, l’anulare nel buco posteriore, la mano destra che sfrega veloce il clitoride. Mi alzo visibilmente seccato, vado al cesso. Mi spoglio, sfuggendo di proposito alla mia immagine nello specchio. M’infilo sotto la doccia. Quando esco, nudo ma asciutto, lei è ancora alla stessa scena.

“Vieni qui” mi dice con voce roca, “dammi una leccata, che sputo fiamme”.
M’inginocchio fra le sue cosce e mentre continua a sgrillettarsi e pomparsi la fica le lecco l’umore che prende a colarle abbondante dalle dita e dalle labbra aperte. Gode dopo qualche minuto, urlando senza ritegno. “Oooooh ssssììì, aaaaaaaahhh”. Continuo a lappare, agevolato dall’assenza delle mani, che adesso mi stringono forte i capelli, fin quando la stretta delle sue cosce attorno al collo non mi tronca il respiro lasciandomi cianotico. Rimane per un po’ ansimante e sfatta sul divano. Poi, rasserenata, mi chiede se mi va di preparare un caffè. È una parola, mi dico alzandomi. Recupero la moka e un paio di tazzine in quel casino, le sciacquo, carico la macchinetta e la metto sul fornello.
“Hai qualcosa per me?” mi fa con voce speranzosa e insieme maliziosa, spennazzando le ciglia.
“Guarda nella camicia. È appesa alla maniglia del bagno” dico mentre libero una vasca dell’acquaio, la riempio di acqua saponata e metto a mollo una parte delle stoviglie sporche. Abbozzo un sorriso quando mi raggiungono i gridolini di gioia, come una bambina che ha scartato il suo regalo. Subito dopo sento l’avido inalare della sua pippata e l’aaah di goduta soddisfazione. Verso il caffè nelle tazze e lo porto alla signora. Lei si tira su, prende la tazzina, sorseggia raggiante, puntandomi con le pupille verdi ridotte a punte di spillo.
“Ah, bello carico come piace a me”.
Sullo schermo è rimasto il fermo immagine del culo di Pitt. Lo contempla estasiata, ma con occhio da critica d’arte, stavolta, di esperta del settore.
“Che splendore, eh?” fa come aspettandosi un’approvazione.
“Eh già”, dico un po’ svogliato.
“Che fai il geloso? Non sarai mica così ridicolo?”
“Ma che dici” mi schernisco, “sarà adesso che sono invidioso di un agglomerato di pixel disposto a forma di culo”.
“Ho capito. Dai, monta” dice e s’inginocchia sul divano, tirandosi sulla groppa la vestaglia di un azzurro sdrucito e tenendosi alla spalliera del divano. “Sei proprio come un bambino”.
Ha il culo bello grosso, tondo e rigato da qualche smagliatura, come graffi tremolanti sulla pelle. Grumi di cellulite soda impreziosiscono il tutto. Abbranco con ambo le mani i due grossi emisferi gemellari. Li separo, scoprendo la striscia di pelo scuro e morbido che percorre il solco umido, unendo buco del culo e fica, come un sentiero francigeno. M’inebrio di quell’afrore selvatico, come di bosco o di erba bagnata. Faccio pascolare la lingua lì in mezzo, indugiando minuziosamente sul buco di dietro, ammorbidendone con abbondante saliva l’anello di carne, sul quale è arpionato un’emorroide pingue come un verme ben pasciuto, fin quando non la sento gemere e mi viene duro.
“Sei proprio come un bambino” ripete guardandomi da dietro la spalla e sculettando come una cagnolina in festa, “Vieni dai, sei il mio Achille e io la tua Briseide. Fottimi, che non ce la faccio più”. Mi tiro su, mi metto in posizione e m’insolco nel budello oscuro con un sol colpo. “Come un bambino, il mio Achilluccio” grugnisce e asseconda ogni colpo con oscena voluttà.
Mi abbarbico con forza a quella carne soda e calda, e fisso il mio cazzo entrare ed uscire dal buchetto stretto del culo. Prendo a fotterlo, quel grosso culo, con quanta foia ho in corpo, con gli occhi da fuori come uova sode, grugnendo come un porco, sgocciolando saliva sulla schiena di lei, che si contorce come se la penetrassi con un ferro incandescente, e mi urla di chiavarla più forte, di sbatterla come una cagna, di sfondarla così, mentre le sue dita sgrillettano il clitoride furiosamente, e l’orgasmo la investe con una violenta marea di umore incandescente che prende a colarle per l’interno coscia. Quando l’anello di carne mi si stringe alla base del cazzo, non permettendomi più alcun movimento, le schizzo dentro tutta la voglia compressa e mi accascio, esanime, sulla sua schiena.
*
“Devo dirti una cosa…” esordisco qualche ora più tardi, dopo diverse pippate con annesse scopate e oramai in prossimità dell’incipiente fase down che comincia a plasmare e lavorare quell’inizio di depressione che sentivo vagolare dentro di me al tavolino del bar in via Mezzocannone.
“Dopo, amore” mi fa alzandosi e con un tono di voce che palesa tutto lo sforzo titanico cui si è sottoposta per raccogliere i residui di volontà e forza necessarie per tirarsi su dal letto. “Ora ho proprio bisogno di una doccia anch’io”. Mi volta le spalle e, un po’ ancheggiando un po’ barcollando, con una mano sul coccige e l’altra sulla fronte, con le dita infilate nell’intreccio dei ricci biondi, si avvia verso il bagno. Seguo il suo andare, modulando il respiro sul suo passo biascicato, sul movimento sinuoso della schiena e delle chiappe, e non ha ancora varcato la soglia del cesso che sprofondo nel più sordido dei sonni.

💥 CONTINUA A LEGGERE 💥