La bella Giorgina

A Giorgina piace proprio tanto attizzarli i ragazzi del Bar degli Amici. Mette su i vestiti più corti e attillati che trova nel guardaroba, scarpe con un po’ di tacco – il giusto per slanciare gambe massicce e tornite come colonne greche – e scende di casa mandando a destra e sinistra quel gran culo che si ritrova, compresso nell’abito fino a far urlare pietà alle cuciture. Come la vedono, i ragazzi svaccati al tavolino deglutiscono e si danno di gomito, sciorinando rosari di apprezzamenti volgari a dir poco lusinghieri per la giunonica Giorgina, le cui mutandine subito s’inzuppano al pensiero di quei giovanotti arrapati che sbavano al suo passaggio, e se la sente sgocciolare nel solco delle chiappe e fra i seni opulenti quella vischiosa bava di desiderio che le si appiccica addosso come afa. E sculetta, la bella Giorgina, mentre passa davanti a loro e di sbieco, protetta dalle lenti scure, getta un’occhiata alle loro patte gonfie oscenamente strette nei pugni, ad esplicitare plasticamente voglie e inviti.

Se li immagina, Giorgina, quei cazzi belli grossi, scappellati e umidi, dalla capocchia turgida e violacea, e intimamente gode ancor di più a confrontarli con quello di Lucio, che le ha chiesto di sposarlo, e lei ha accettato perché Lucio è un bravo ragazzo, volenteroso e lavoratore, onesto e buono d’animo, che l’adora e le vuole bene, ma che fra le cosce madre natura non gli ha fornito con altrettanta prodigalità qualità tali da toglierle ogni volta quella voglia, che dal mattino le surriscalda la carne, dapprima lenta, poi sempre più forte, fino a farle bollire il sangue, come il ragù che sua nonna mette sul fuoco il sabato e lo fa stare per ore e ore, fino alla domenica, finché non s’addensa come magma. Quella voglia permanente, che non la lascia mai nemmeno quando lavora ad ore, strofinando i pavimenti di case sempre troppo scure e sature di muffa mista ad odore di minestre e fritture. Bravo ragazzo, Lucio, ma ha un cazzetto lungo un indice e quando, nudo, magro e scarno come un ramo secco, le si infila fra le cosce e prende ad agitarsi come un coniglio, lei non ha il tempo di accorgersi della sua presenza che lui si è già tirato fuori, con il viso deformato dal piacere, l’uccelletto tra le dita che si agitano frenetiche, fino a schizzarle le tette con qualche goccia di sbrodo caldo. Bravo ragazzo, Lucio, sicuro, ma da queste parti, in questa giungla metropolitana, esempio palpitante di quanto sia fondata la teoria della lotta alla sopravvivenza, è facile confondere la bontà con la mancanza di palle e con un nerbo che, ahilui, è proporzionato ai centimetri di cazzo. Ne è convinta, Giorgina, di questa teoria, perché lo vede il suo Lucio farsi sfruttare sul lavoro, mandare giù le angherie di chiunque, dal pizzicagnolo che lo frega puntualmente sul resto a quello stronzo dell’appartamento di sopra, che scarica di tutto sul loro balcone. Altroché se la personalità di un maschio è fortificata dalla vigoria del suo arnese!

La discesa di Montecalvario dà la giusta conferma alla sua teoria, e se ci fossero ancora diffidenze sull’argomento andate a chiedere a Ciruzzo il meccanico o ad Alfonso il panettiere – vi inviterebbe Giorgina, accalorata nello spiegare questa nuova e personalissima versione del darwinismo sociale -, che se la sono sbattuta a turno, prima uno e poi l’altro, nel retrobottega affollato di sacchi di farina e semenze varie, percuotendola con cazzi eburnei duri come clave che spruzzano sbroda come da un idrante. Questi sono uomini con due coglioni così, che fottono e non si lasciano fottere. Altroché, chiosa la bella Giorgina, mettendo un punto definitivo alla questione.

Da quando non si fa una chiavata degna di questo nome, pensa Giorgina, con tutti i crismi del caso, mentre prosegue su via Roma e imbocca il vicolo dei Quartieri, sorridendo a quei pensieri maliziosi che le solleticano la fantasia, pensieri a forma di cazzi che le raspano la sfumatura di morbido pelo nero fra le chiappe, cercando l’apertura della fica già abbondantemente lubrificata, mentre lei si dà da fare con le mani e con la bocca con altri membri eretti che la desiderano, che la bramano, che vogliono abusare del suo corpo modellato dai desideri dei maschi arrapati, della sua carne di brace, abbondante e succulenta. Un po’ questi pensieri, un po’ il caos del mercato, non se ne accorge, Giorgina, che tre di quei ragazzi che l’avevano tanto rumorosamente apprezzata al bar l’hanno seguita e le girono adesso intorno come mosconi sulla zanzariera, tessendo gli elogi, in sanguigno napoletano, di ogni parte del suo corpo, esortandola ad appartarsi con loro per dare sfogo alle cotante reciproche grazie. Ma la bella Giorgina la sua parte la conosce bene e la inscena con grande maestria, da attrice consumata qual è, schernendosi prima timidamente, rintuzzando, poi, con decisione crescente, ogni colpo dei pretendenti, come si conviene nei migliori alterchi della tradizione, da Cielo d’Alcamo in poi. Fino ad ottenere, battuta dopo battuta, come la più scaltra tra le venditrici, l’effetto desiderato. Il colpo lo prepara per bene, come l’azione congegnata che ti manda dritto in porta, e all’ennesima profferta che, nelle intenzioni di chi la declama, avrebbe dovuto spalancarle le porte del paradiso dei sensi, lei risponde, lasciva e sarcastica al tempo stesso, lasciatemi perdere che non sono carne per bocche che sanno ancora di latte. Coup de theatre! Tanto di cappello a colei che conosce a menadito la primitiva psicologia del maschio in calore. Nonostante gli schiamazzi, che alla mezza raggiungono il loro apice, la frase di Giorgina ha l’effetto di un petardo esploso in piena notte. Il latte te lo bevi tu adesso, sbottano quasi all’unisono e con la bava alla bocca i tre gaudenti, ed ecco che un paio di braccia l’afferrano e la spingono nell’antro di un palazzo, una mano le tappa la bocca mentre il quartetto s’infila nell’ascensore che prende a salire, sempre più su, mentre nello stretto vano è tutto un toccare e rovistarle sotto la gonna. Questa c’ha più voglia di noi, commenta qualcuno – molto probabilmente, intuisce la ragazza, quello che le ha strappato il perizoma e che ora le sfrega senza garbo il clitoride con dita ruvide e callose. Arrivano all’ultimo piano, affrontano a piedi l’ultima rampa di scale, sollevando di peso la succulenta preda, e sbucano sul terrazzo, dove, senza troppi riguardi ai convenevoli, la spingono per terra, sulle piastrelle di capitolato che ricoprono il catrame per evitare che si sciolga in estate sotto i piedi delle massaie tutte-culo-e-ciccia impegnate a stendere i panni. Hanno fretta, i tre ragazzi, obnubilati da un arrapamento che non li fa più ragionare, guidati come sono adesso dal puro istinto dell’animale in cerca di soddisfazione, e si danno subito da fare, e a turno fanno capolino fra le sue cosce, penetrandola con foia, mentre uno le tiene tappata la bocca, un altro ferme le braccia e il terzo socio riprende il tutto col cellulare, a futuro beneficio dei sodali al bar o come prova di una scommessa precedentemente stipulata. Si agita e si dimena, Giorgina, e i movimenti le fanno sbottare fuori dal decolté i grossi seni impreziositi da areole larghe e scure, contornate da capezzoli turgidi e dritti come soldatini di piombo sugli attenti, liberi per l’assenza di reggiseno, e prendono a ballonzolare ad ogni affondo dell’ariete che le bussa alla bocca dello stomaco, sbattendo contro al sesso dalle labbra vellutate e spalancate le palle sode e pelose, che rintoccano veementi come i batacchi delle campane della Santissima Annunziata.

Non si può dire, quindi, ad esser sinceri, che non c’abbia provato per un po’ a fare resistenza, Giorgina, a divincolarsi dagli abbracci frenetici dei tre maschi infoiati, ma è abbastanza navigata da sapere che sarebbe stato inutile e che urlare aiuto sarebbe stato altrettanto controproducente in un posto come quello, dove nessuno sente e nessuno vede, preferendo i cazzi propri all’immischiarsi in faccende affini sia col penale sia con la violenza e la sopraffazione. Ma, al di là della doverosa postilla a cautela di balorde accuse di maschilismo, preme qui evidenziare l’aspetto psicologico della protagonista che, pienamente calata nel tessuto sociale in cui vive, ne scandaglia in prima persona, e sulla propria pelle, i risvolti più torbidi e sordidi, con un modus operandi quasi pasoliniano, verrebbe da dire, sebbene il dato conoscitivo recuperato dall’esperienza rimanga in fieri e vincolato al semplice soddisfacimento delle sue voglie, non possedendo, la bella Giorgina, gli strumenti intellettuali necessari a concettualizzare quel dato socio-antropologico riscontrato e renderlo sistematico e fruibile, ove mai sia questo che ella vorrebbe. Perciò non resta che accettare per buona e data – senza moralismi ipocriti a supporto di un’esegesi che non starebbe in piedi per la mancata aderenza con la stessa realtà che pur vorrebbe spiegare – la genuina passione di Giorgina, che lì sopra, sbattuta a terra sulle mattonelle di capitolato di uno squallido terrazzo, appena vede uscire dalle caiole aperte dei pantaloni quegli uccelli imbizzarriti, con la testa grossa e viola, se ne parte letteralmente con la testa, ed allora è tutto un assecondare, allargare, impugnare, menare, succhiare, strusciare, strizzare, fino a godere a scrosci, come una pioggia tropicale che si abbatte violenta sul creato.

Non fa in tempo a soddisfarne uno, che questi già è pronto a rimettersi in fila per il nuovo turno, e gli orgasmi non li conta più, la focosa fanciulla, immersa com’è in un unico, infinito flusso di piacere. Godono alla grande, Giorgina con la bocca spalancata a fagocitare il sole che picchia come un fabbro sotto LSD, i tre svuotandosi a turno i coglioni gonfi di voglia e di sbrodo in quel budello lussurioso, e si concedono anche un secondo e un terzo giro di giostra, dei quali, però, non rimangono testimonianze provate, ma solo l’esaltato ed estasiato racconto dei tre, che, con spreco di iperboli, intrattengono gli astanti interessati illustrando con dovizie di particolari e dettagli che grande chiavata sia la bella Giorgina.

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