Il portinaio

Carmine è un personaggio sordido, di quelli che provano un intimo compiacimento nel destare orrore negli altri e, per soddisfare questa vanità di segno contrario, ostenta con ostinazione il suo squallore. Fa un mestiere in estinzione, quello del portinaio, ma dalle mie parti ancora se ne vedono e diversi condomini così possono beneficiare dei loro servigi certamente preziosi. Sotto i 60, Carmine, in virtù dei capelli bianchi e unticci, che porta legati in uno striminzito codino del tutto simile alla coda di un ratto, e di una barbetta ispida, a guisa di lanugine, mangiucchiata in più parti da una bizzarra alopecia  che lascia visibile sulle porzioni di guance il martirio di un’antica malattia della pelle che ha fatto danni, ne dimostra una decina in più, anche per via di un abbigliamento sgualcito e usurato che gli dà un’aria da clochard d’annata, scontroso e avvinazzato. Grosso, massiccio, ventrato, deambula a gambe larghe, forse a causa di una lieve zoppia, che gli dà l’andatura di un orso con la gotta. Di pochissime parole, se è costretto a parlare lo fa borbottando e grugnendo, pur conservando intatte gentilezza, professionalità ed efficienza. Qualsiasi problema è affrontato da lui con risolutezza e noi condomini lo portiamo sul palmo della mano, elargendogli generose mance per ogni grana della quale si fa carico. Tuttavia, il personaggio che è suscita, in fondo al convinto progressismo che anima la condotta e i pensieri dei più, una certa nausea, che diventa timore a volte, come se si percepisse in lui un sostrato di mistero, un pozzo nero dal quale pur ci si sente attratti per una misteriosa vertigine e naturale richiamo, ma che poi, dopo l’attimo di sbandamento, si rifiuta con sprezzante raccapriccio.

“Eppure ha qualità anche nascoste, il buon Carmine” dice mia moglie con un sorrisino malizioso mentre si siede al tavolo della colazione accanto a me e accavalla le gambe tornite, nude fino all’attaccatura delle mutandine coperte dal bordo di una t-shirt dei Rolling Stones.
“E tu che ne sai?” ribatto poggiando sul piatto pieno di briciole la tazzina di caffè vuota e accendendo una sigaretta.

“Me lo ha detto Lisa” risponde Giada con nonchalance, addentando una fetta di pane tostato e imburrato con un dito di marmellata rosa canina che sta per sgocciolarle sulle lunghe dita affusolate, con le unghie smaltate di un verde chiaro che richiama il colore dei suoi occhi vivi, brillanti, palpitanti come due fiammelle in una stanza scura.
“E che ne sa Lisa?” chiedo incuriosito mettendomi comodo sulla sedia.
“Ricordi quando è stata qui la settimana scorsa a cena?”

“Sì, e allora?”

“Quando è andata via era tardi, è passata davanti alla guardiola ma Carmine era ancora in piedi, sebbene in bermuda e in canottiera. Appena l’ha vista da sola si è offerto di accompagnarla al parcheggio, data l’ora tarda”.

“Premuroso” commento.

“Sì. Lisa dice che avevano un rigonfiamento, quei bermuda, non indifferente, lo si sarebbe detto innaturale. Lei era più che brilla e gli ha fatto una battuta”.
“Cioè?”
“Gli ha detto” e qui si porta una mano alla bocca per ricacciare lo scoppio del riso, “se avesse interrotto qualcosa o se nascondesse un’arma lì sotto, vista l’ora e, soprattutto, i tempi che corrono, pieni di malintenzionati e delinquenti di ogni risma”.

“Ma dai, Lisa gli ha detto questo?! E lui?” chiedo sinceramente stupito.

“Eh” fa Giada prendendosi il tempo di mandare giù un sorso di latte, “lui le ha risposto che l’effetto era causato dall’apparizione di Lisa, che era tutta in tiro nel suo tubino che lascia poco spazio all’immaginazione… e tu ne sai qualcosa, visto che l’hai sbranata con gli occhi tutta la sera, porco che non sei altro!”

“Che sfacciato!” dico sorvolando sull’accusa, sebbene benevola, di Giada, ma senza evitare che per qualche istante si ricomponesse nella mente l’immagine di Lisa e del suo imponente stacco di gambe, con la coscia che nell’accavallata si scopriva fino alla natica rotonda e arrogante, “E dopo questa dichiarazione poetica d’altri tempi cosa è successo?”
“È successo che Lisa gli ha detto che se l’omaggio – l’ha chiamato proprio così: omaggio – era per lei, voleva vederlo, per accettarne l’adeguatezza”.

“Che troia, la nostra Lisa!”

“Già. Sta di fatto, però, che lui ha colto la palla al balzo e, senza battere ciglio, ha tirato giù le braghe e…”

“Eeee…” le faccio eco mentre lei si concede l’ultimo sorso di latte e si accende una sigaretta, con calma snervante.

“E il bigolo è scattato come un congegno a molla rampandogli l’ombelico. Lisa dice che era un affare così” e distanzia i due indici ad una misura davvero considerevole, “uno sfollagente di carne sormontato da una mela annurca violacea e imperlata su in cima”.
“Come sei dettagliata” dico con voce appena roca a causa di un’erezione improvvisa.
“Mi limito a citare Lisa alla lettera” sorride sorniona mia moglie sbuffando di lato il fumo.
“E che ha fatto lei a quel punto?” chiedo impaziente.

“Lisa dice che è rimasta come pietrificata nel riquadro della porta aperta del gabbiotto. Non riusciva a staccare gli occhi da quel cazzo asinino ritto come un totem. Si è riscossa soltanto quando lui le ha chiesto di ricambiare”.

“Cioè?”
“Come cioè? Le ha chiesto di alzarsi la gonna e mostrargli la mercanzia. Di giocare a carte scoperte, insomma” e ride per la metafora. Io deglutisco e mi palpo il pacco, sentendolo duro. Il gesto, anche se consumatosi sotto al tavolo, non sfugge a Giada. “Ti stai arrapando?” chiede mentre stropiccia il filtro nel posacenere.

“Bè, è una scena eccitante…” ammetto forse arrossendo per la flagranza nella quale sono stato pizzicato.

“Lo è, sì, ha fatto effetto anche a me quando me l’ha raccontato”.

“Vabbè, ma Lisa come ha reagito alla richiesta?”

“Ha fatto due passi in avanti, ha chiuso la porta e si è alzata il tubino lentamente, prima sopra le mutande – o meglio, laddove ci sarebbero dovute essere le mutande, visto che non le aveva quella sera (cosa che sai benissimo, tra parentesi) – poi fino alle tette”.
“Oh mamma” sospiro pensando alla strisciolina di pelo nero che attraversa il centro del Monte di Venere di Lisa (particolare appurato di persona ogni qualvolta siamo da lei in piscina, dove vige la regola inviolabile del nudismo per chiunque metta piede sul prato al di là della cinta di siepi che protegge vasca e ospiti), e alle sue tettine sode dai capezzoli turgidi e rosa, “Carmine ha apprezzato?”

“Ti pare che avrebbe potuto non apprezzare? Ha grugnito qualcosa che Lisa non ha capito, ha impugnato la mazza e ha preso a menarselo forsennatamente, rantolando e sbanfando come una vecchia locomotiva. Quindi le ha chiesto di girarsi, lei allora gli ha mostrato il culo, chinandosi appena per evidenziare la perfetta simmetria delle chiappe gemelle e il solco che le divide”.

“S-sì…” balbetto infilando la destra nelle mutande ed imitando il buon Carmine, sebbene con un ritmo lento, interlocutorio. “Poi?”

“Lisa è rimasta in quella posizione fin quando non ha sentito sul culo gli schizzi caldi della venuta di Carmine. La distanza era notevole, eppure quel bazooka è riuscita a raggiungerla con i suoi pallettoni. Lisa era sconvolta da questo fatto. Sconvolta e ammirata”.
“E a quel punto si è coperta ed è andata via?” incalzo non dando peso all’aura sognante che per un attimo, mentre declamava con leggera enfasi gli ultimi due aggettivi, si è accesa negli occhi di Giada.

“Macché!” fa allontanando la mia domanda con un gesto della mano, come se avessi esternato la più grossa delle fesserie possibili in quel momento, “Quando si è girata, Carmine era ancora lì, a gambe larghe e col manganello che cominciava progressivamente ad ammosciarsi fra le mani, fino ad assumere le fattezze di una lunga proboscide gocciolante. Si è avvicinato e, senza che le dicesse niente, Lisa si è inginocchiata ed ha cominciato a manovrargli l’attrezzo come una pompa da giardino, smanettandolo e succhiandolo fin quando – dopo pochissimo tempo, ha sottolineato, altro che quei ragazzotti gonfi di anabolizzanti che rimorchia in palestra, che dopo la prima necessitano della rianimazione di un gonfietto da bicicletta! – non si è gonfiato come un pavone, ritrovando l’imperiosa postura di poco prima”.

“A quel punto se l’è trombata?” chiedo ansimando e aumentando di un giro il ritmo della raspa.
“Chiavata” mi corregge Giada con puntiglio, “Lisa ha usato questo termine: chiavata. L’ha tirata su per i capelli, le ha abbrancato le chiappe con le manone scimmiesche e se l’è caricata in braccio con la stessa naturalezza con la quale avrebbe tirato su una bambina. Quindi gliene ha infilato dentro un bel pezzo – ma altrettanto ne restava fuori, giura Lisa – e si è avviato nel retro, dove ha la camera da letto, e lì, tra lenzuola sporche e maleodoranti, l’ha chiavata fino all’alba, di sopra, di sotto, di lato, a pecora – soprattutto a pecora, dice, perché lo faceva impazzire il culo sodo a mandolino -, insomma tutto il repertorio classico di un film porno”.

“Certo che è proprio una puttana, Lisa” dico togliendo la mano dalle mutande e facendola strisciare sulla coscia liscia e abbronzata di Giada, fino a ghermirle con le dita la retina del perizoma, dove preme la larga macchia scura del pelo, un folto verziere il cui afrore mi trafigge il cervello come un’inalata di popper. Infilo il medio oltre l’elastico e lo spingo fra le labbra dischiuse e già umide, strappandole un gemito di lussuria.
“Le puttane si fanno pagare” mi corregge ancora la maestrina, “in questo caso, a sentire i toni entusiasti con cui Lisa mi ha raccontato il tutto, quasi ci mancava che fosse lei a lasciargli la giusta mercede sul comodino, sotto l’abat-jour, prima di andare via”.
“Che vuoi dire?” faccio mentre, genuflesso fra le sue gambe aperte, sfilo il perizoma e comincio a titillarle con la lingua il clitoride.

“Voglio dire che, al netto di una location e di un tizio piuttosto squallidi, Lisa si è trovata dinanzi ad un’epifania prodigiosa della natura, un evento più unico che raro, che è difficile che ti ricapiti nella vita, ed ha deciso di approfittarne” dice con voce rotta grattandomi la testa come se mi stesse facendo uno shampoo.

“Mi stai dicendo che al suo posto ti saresti comportata allo stesso modo?” gorgoglio senza smettere di slinguazzarla a lingua piena, come una pennellessa, dal basso verso l’alto.
“Sto dicendo” miagola lei iniziando a produrre miele, “che davanti all’eccezionalità di un evento che ti capita e del quale puoi approfittare, le categorie di giudizio che spesso, per non dire sempre, utilizziamo un bel po’ ipocritamente per giudicare fatti di questo tipo, bè queste categorie, dico, vengono meno, non sono più adatte nemmeno per inquadrare la cosa, appunto perché questa cosa non è comune, ordinaria, ma appunto eccezionale… oooh aaah amoooreee… mmmmm… fammi finire il discorso prima… ooohhh sssììì… beeellooo… dunque, hai capito cosa voglio dire? Davanti all’eccezionalità, Lisa ha deciso di farne esperienza e di non rinunciarvi. Per cosa, poi? In nome di cooosaaahhh… mmmmmm… Lisa è una donna libera e può faaareee…  ooohhh aaahhh… dio miiiooo… quello che vuole, no?”

“Quindi al suo posto” chioso accompagnando il lavoro di lingua col pompaggio di due dita, “tu non avresti approfittato di questa eccezionalità, come la chiami, perché sei una donna sposata?”

“Non ho deeettooo… mi stai faceeendo gooodeeereee… mmmmm… continua… Oh sì, continuaaa…”
“Non hai detto cosa?” dico senza smettere ma rallentando parecchio i giri di lingua e dita.
“Non ho detto che non ne avrei approfittato” mugola strigliandomi i capelli come fossero briglie.

“Quindi ti faresti sbattere da Carmine e dal suo uccellone?” ipotizzo con preoccupazione crescente.

“Non ho detto nemmeno questo”.

“E che cazzo hai detto, allora?” sbotto lievemente infastidito.

“Che mi sarei posta il problema, senza escluderlo a priori e per un principio bigotto che, ripeto, seppure lo si vuol seguire per orientare la propria condotta nel quotidiano, necessariamente decade quando la struttura di questo quotidiano cambia e ci si imbatte nell’elemento straordinario, nell’eccezione, nella deviazione alla norma. E adesso scopiamo, che la lezioncina è finita e sto scoppiando!” conclude alzandosi in piedi di scatto. Faccio la stessa cosa anch’io, mi tiro su e la sbatto con malagrazia sul tavolo, infilzandola in un sol colpo fino alla matrice e fottendo di buona lena, tenendomi con presa salda ai suoi fianchi e con le reni strette nella morsa delle sue cosce. Non dura molto e al suo orgasmo belato, crescente, prolungato segue il mio, violento, sferzante, rabbioso.

Quando ci riprendiamo, ho giusto il tempo di una doccia veloce, ma, nonostante il ritardo che accumulo, imbottigliato nel traffico sulla tangenziale, i miei pensieri sono tutti per Carmine, il suo manganello e l’effetto immaginifico che questi ha su mia moglie, al punto da farne il nucleo sovversivo di una visione filosofica del fallo. Anzi, del Fallo, con la Effe bella grossa e sormontata da una cappella simile ad una melannurca, con tanto di goccia stillante dal meato.

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