Il tramonto si spappola sui terrazzi incatramati di Montecalvario, zeppi di antenne, paraboliche e panni stesi ad asciugare, schizzando ovunque il suo arancione acido e malato, come un enorme loto maturo caduto a bomba sulla città. L’umidità però rimane ancora ben oltre i livelli di guardia e fissa il calore sulla pelle, spalmandolo come melassa e facendolo evaporare in sudore ad ogni minimo movimento – sia anche il breve spazio che devo coprire per portarmi alla bocca una cicca di trinciato, mentre mi dondolo pigro sull’amaca assicurata ai pali mangiucchiati dalla ruggine della veranda sfacciatamente abusiva. Ingollo birra fredda in lattina, cullato ad occhi chiusi dai rumori della strada – grida di venditori di ogni genere alimentare, per lo più, esposto su bancarelle malferme prede di nugoli di mosche e zanzare, ma anche scatarrate di mezzi con la marmitta truccata, urla di ragazzini e delle loro madri, e dei padri-mariti-amanti davanti ai bar, assiepati intorno ai tavolini o in piedi alla porta a mandar giù arachidi e spritz.
In questa atmosfera calda e sonnacchiosa, sebbene brulicante di vita come un verminaio, in mutande e torso nudo, spulcio un po’ di notizie locali sul laptop poggiato sulle gambe nude e sudaticce. Ho un pezzo da scrivere per “Storie di quartiere” e mi serve ispirazione, per non dire di una storia bell’e confezionata sulla quale ricamare appena un po’, attenendomi con rigore al verosimile, quando non alla realtà cruda così com’è, o almeno come mi si palesa. Mi sa che Veronica ha ragione, non ho immaginazione né fantasia né gusto per l’intreccio. Il mio sguardo sul mondo è breve, di respiro corto, non ha lunga gittata né profondità. Tutto ciò che faccio è accogliere le persone, meglio: il loro personaggio, ciò che mi mostrano, per raccontarne quel frammento di vita che lasciano dopo il fugace passaggio – chioso distratto, attratto dalla notizia che occupa il taglio alto della versione online del Mattino.

“Gennaro Cusani, diplomando del Liceo classico Sannazaro, fiore all’occhiello dell’intera città di Napoli, si aggiudica entrambe le medaglie d’oro alle Olimpiadi di Latino e di Greco. È la prima volta nella storia della competizione, riservata agli alunni dei Licei italiani, che uno studente trionfa in ambedue le categorie. Il giovane umanista, all’interno della cerimonia che si terrà a Roma presso l’Hotel Continental l’ultimo giorno del mese, sarà premiato dal sottosegretario del MIUR davanti a tutte le autorità competenti e insignito di una borsa di studi che ne garantirà il percorso universitario, che già si prefigura come brillante. La notizia ci rende ancor più orgogliosi di questo giovanissimo umanista nostro concittadino se consideriamo l’ambiente popolare dal quale proviene, ovvero da quei Quartieri che notoriamente, e tristemente, fanno parlare di sé più per la cronaca nera che per realtà di questo tipo.“

Hai capito Gennaro – mi complimento, unendomi idealmente al coro dei plaudenti – bravo, bravo bravo bravo. Quindi, rimuginando sulla notizia, mi alzo, recupero un altro paio di birre dal frigo e ritorno sull’amaca. Accendo una sigaretta, aspiro per qualche secondo e apro un nuovo file word, salvandolo col nome del suo nuovo protagonista.

*

Gennaro Cusani non è certo quel che si è soliti definire un adone. Sul metro e settanta, tarchiato, collo taurino, un paio di occhietti da topo infossati in occhiaie profonde come zuppiere, una braciola al posto della bocca un po’ troppo vicina al naso carnoso e infestato da punti neri grossi come moscerini, la Natura si è ulteriormente accanita facendogli dono di una devastante acne che gli accende il viso di puntolini giallognoli pulsanti come neon nella notte, e che tiene ben distanti le ragazze, come se la scritta contenuta in quei neon facesse prefigurare il contagio di una vita disgraziata alla mercé dello sberleffo e dell’emarginazione sociale. E in effetti un emarginato, Gennaro Cusani, lo è per davvero – sebbene si tratti di un’emarginazione volontaria, un ritrarsi consapevole dentro sé stesso, un autoesilio in un mondo fatto di scuola e di silenzi chiuso in camera. Persino i suoi genitori si sono rassegnati ad averlo solo a tavola e, dopo lungo tempo di angosce per vederlo così fuori dalla vita, così diverso e lontano dai suoi coetanei, hanno riposto entrambi, il signore e la signora Cusani, una incondizionata fiducia nel futuro di quel figliolo sfortunato nelle fattezze ma così brillante negli studi, tanto da meritarsi l’epiteto di Leopardi – anzi, giacomoleopardi tutto attaccato – sia tra la scolaresca del Liceo classico Sannazaro, sia tra la ciurmaglia di ragazzini del suo quartiere, certo meno raffinata ma non per questo meno sincera.

Da parte sua, lo sconcecanome che gli hanno affibbiato non gli dispiace affatto. Del resto, prima ancora che glielo appiccicassero, già per conto suo aveva istituito più di un’analogia con l’illustre recanatese, dall’oggettiva bruttezza del corpo all’amore per le lettere. Poi, la sua fantasia si era spinta oltre, fino ad un’identificazione che lo portava, nell’alcova protetta della sua immaginazione, a teorizzare possibili situazioni fonti ispiratrici dei canti del poeta. E così, quando ebbero inizio gli immaginifici tormenti delle tempeste ormonali, si figurava Leopardi sul «verone del paterno ostello» che guardava Silvia intenta a filare, mentre la sua voce flautata intonava arie che riempivano le «quiete stanze» tutt’intorno, saturandole di febbrile elettricità, del tutto  simile a lui che, da dietro le tende della sua mansarda – tirata su abusivamente sul terrazzo patronale dalle mani esperte del signor Cusani, mosso dalla volontà di preservare l’intimità e lo studio di quel figliolo così promettente – cazzo stretto nel pugno, spiava la bella Giorgina (cfr. l’omonimo racconto: La bella Giorgina), la ragazza che lavorava ad ore nell’appartamento di fronte cantando non certo il Metastasio, bensì una più in voga Maria Nazionale, mentre energicamente ci dava di straccio e di ramazza, e, anche se non c’erano viottoli e il mare non si vedeva da lì, la sua voce emergeva lo stesso sopra gli strilli nel vicolo e sulle sgasate assordanti dei mezzi truccati. E più spingeva in avanti la scopa, chinandosi col busto, dal quale ballonzolavano armonicamente le tette, e più la gonnella le risaliva svolazzante sulle cosce tornite e brune, che subito riverberavano sulla retina di Gennaro, ghermendone la voglia già eccitata. Eh sì, per la miseria, che pur il divino Giacomo se lo sarà tirato un raspone mentre indovinava le fattezze di Silvia sotto le vesti austere! Una raspa con tutti i crismi del caso, immaginandola prona davanti alla sua erezione prepotente, tenuta su da un afflusso copioso di sangue blu, proprio come la vide tempo prima di ritorno da una delle sue passeggiate solitarie – fantasticava Gennaro – curvo sui suoi passi e libri sotto al braccio ad appesantirne ancor più l’andatura sbilenca, quando, attratto da un tramonto porporino che come bava calava lungo il Monte Tabor, investendo di luce arancia ogni cosa che incontrava al suo passaggio, si diresse verso la rimessa delle carrozze, nei pressi della stalla, da dove gli parve di udire strani suoni. E affacciatosi sull’uscio, la vide, la bella Silvia «dagli occhi ridenti e fuggitivi», sprizzare vita e gioia mentre, bocconi su una balla di fieno, le vesti accartocciate sulla groppa, le candide brache alle caviglie, offriva un culo florido e tondo, come un melone venuto su col sole di mezzanotte, al factotum della residenza Leopardi, un giovane gagliardo e forte, dalla pelle olivastra, un saraceno tutto nervi e muscoli e cazzo, che se la fotteva alla grande tenendola stretta per i fianchi larghi da puledra, elogiando ad ogni affondo la consistenza di quelle chiappe michelangiolesche e le inequivocabili virtù di una fica idrovora, che sembrava stesse facendogli un pompino, da tanto che era stretta e umida. E vuoi vedere che il Vate illustrissimo non si sia slacciato la patta con la mano libera ed estratta la mazza già pronta non se la sia lisciata per benino? Massì, massì che l’ha fatto, proprio come l’ha fatto lui, Gennaro Cusani alias giacomoleopardi, quando Ciruzzo Scarfoglio, professione meccanico, ha fatto irruzione nella casa di fronte, della quale la madre è proprietaria, s’è sfilato la salopette di jeans macchiata di grasso e, a beneficio di tutti e tre, s’è scopato Giorgina sul tavolo della cucina – né più né meno di come fece la settimana prima il signor Scarfoglio, ad ulteriore testimonianza che buon sangue non mente. Stessa situazione, dunque, solo che Leopardi, quello vero, ci ha scritto A Silvia, lui, Gennaro Cusani, invece, ci ha perso su diverse diottrie. C’est la vie!

*

La famiglia Cusani abita nei Quartieri spagnoli, sulla salita del Montecalvario, luogo in cui ristagna la napoletanità più verace ma al contempo vi germina criminalità, prostituzione, camorra, un luogo saturo di vita in tutte le sue epifanie più violente e genuine, ma nel complesso poco proclive ad incoraggiare tra i suoi abitanti l’amore o soltanto l’interesse per i libri. Non si vuol fare di tutt’erba un fascio, ma la realtà scrutata da Gennaro, dall’alto della sua finestra, è pregna di volgarità, violenza, sporcizia. Tuttavia, contrariamente a quanto si possa immaginare, vista la discordanza della sua persona col quartiere, Gennaro ama questo posto, ama i vicoli stretti e bui, i palazzi scuri e decadenti uniti fraternamente da corde con panni stesi ad asciugare, ama il fracasso assordante dei motorini truccati, le urla di venditori di qualsiasi cosa, i movimenti furtivi degli spacciatori, ama le voci sguaiate delle matrone sedute fuori ai bassi, su sedie impagliate che spariscono sotto i loro grossi deretani, ama le ragazze del quartiere, specie quelle volgari, sboccate, ignoranti come capre ma che glielo fanno rizzare con un solo sguardo o alla prima accennata piega delle labbra imbrattate di rossetto, labbra che sembrano disegnate apposta per succhiargli l’uccello, nella sua fantasia, ma che nella realtà non hanno mai neppure proferito il suo nome di battesimo. È il suo popolo, questo, e lui lo ama di un amore incondizionato sebbene silenzioso, ma non per questo meno tenace. E per nulla al mondo si allontanerebbe dalle pareti ammuffite della sua mansarda, così non c’è da stupirsi se, in virtù del primo premio vinto in ambedue le sezioni delle Olimpiadi di Latino e di Greco – episodio unico e molto probabilmente irripetibile nella storia della competizione – l’osannato umanista in erba, Gennaro Cusani, cui le maggiori testate di giornali e online hanno dedicato articoli gravidi di sperticate lodi, non sia col tripudio nel cuore e nella pancia che si è preparato a partire per Roma, sede naturale per la premiazione dei giovani cultori delle discipline classiche.

Se, dunque, delle qualità del cervello di Gennaro Cusani si sono presto accorti tutti i professori di ogni ordine e grado, ivi compresi i mammasantissimi giurati del più prestigioso concorso nazionale per giovani letterati, di un’altra proprietà di cui è – inconsapevolmente, per inciso – fornito se ne ignora l’esistenza. Trattasi di una virtù meno apparente – come ebbe a dire il Poeta, – ma che può tener testa ad un buon cervello, se utilizzata come si deve. Ma al momento della partenza, lì al binario 12 della Stazione Garibaldi, mentre abbraccia i suoi genitori commossi e prodighi di raccomandazioni – mangia, a mammà; statt accort ‘a gent, a papà; telefona! (quest’ultima esortazione in coro) – col borsone a tracolla che rende più goffi i suoi movimenti naturalmente impacciati, il giovane Cusani proprio non lo sapeva che fra le cosce, protetto dal vuoto d’aria di calzoni larghi a vita bassa – unica (e quanto mai pratica, nel suo caso) concessione alla moda in vigore tra i suoi coetanei – gli spendaglia, adagiato sui coglioni gonfi come un cefalopode al sole sugli scogli di Mergellina, un cazzo asinino, almeno di quattro dita superiore a quello, non certo irrilevante quanto a misure, di suo cugino Arturo, delle cui fattezze prese visione su cameratesco invito dello stesso entusiasta interessato, il quale gli sgranò sotto agli occhi una serie di foto sul cellulare che lo ritraevano in piedi davanti a Maddalena, inginocchiata fra le sue cosce e intenta a fargli una fellatio di discreta categoria, a giudicare dalle pupille che erano lì per schizzare dalle orbite e dall’espressione del giovane manzo, accartocciata sul vuoto aperto dalle fauci nella posa tipica del demente o di un paziente sulla poltrona del dentista. Più che i particolari dell’attrezzo in questione, da rapportare eventualmente al suo, a Gennaro sono rimaste impresse le enormi mammelle di Maddalena, grosse e bianchissime come forme di mozzarella di bufala sulle quali una mano scherzosa aveva posto due fragole mature. A quei dettagli, Gennaro dedicò diverse notti a venire, smanettandosi l’uccello con foga, salivando con occhio sgranato e mordendosi a sangue il labbro inferiore per ricacciare indietro i rantoli del piacere.

Le esperienze sessuali di Gennaro finivano lì, ad un intenso e solitario rapporto con sé stesso. Non c’era mai stato nessun contatto con una donna, nemmeno un bacio, sebbene da qualche giorno, ovvero dalla sempre-sia-lodata prova di greco all’esame di maturità, intrattenesse un’immaginaria liaison con Gaia Sollazzo, la più figa del liceo Sannazaro, la quale, in cambio della versione, lo ricompensò con l’intimo caldo di giornata, promettendogli, a completamento di mercede, una serie di foto la cui audacia sarebbe stata direttamente proporzionale al voto riportato.

Preso posto nel suo scompartimento, al momento ancora vuoto, lato finestrino, Gennaro Cusani recupera dallo zaino una versione economica dei Dialoghi di Platone e un pezzo di stoffa ripiegato con cura estrema e tenuto insieme da un nastro di raso rosso. Ripone l’Invicta sotto al seggiolino e, come se stesse scartando l’involucro di una reliquia, delicatamente con la coppia di pollici e indici scioglie il nodo al nastro, stacca i lembi e, con gli occhi sbrilluccicanti dall’emozione, stringe il contenuto nella mano, se lo porta al naso e l’annusa con forza, come se stesse sniffando una striscia bella corposa di cocaina. Estasiato, infine, si abbandona allo schienale, stende le gambe e scivola nella sua lettura, annusando di tanto in tanto l’oggetto chiuso nel pugno, come un distinto signore che dia un paio di boccate alla pipa quando è il momento, il cui afrore, proustianamente, lo proietta lungo le orbite pindariche dei ricordi e dell’immaginazione, che ad essi inevitabilmente si intreccia, ampliandoli, slabbrandoli, modificandoli com’è nella sua stessa natura.

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