Mamma di periferia IV

Dopo gli avvenimenti di questi ultimi giorni apparentemente tutto è come prima: mio figlio si rivolge a me nello stesso modo, si comporta egualmente, e pare che con quel biglietto senta di aver risolto ogni cosa. Ma io credo, al di là delle apparenze, che i rapporti tra noi due siano molto cambiati. Nel senso che tra noi è scesa una cortina di imbarazzo, anche se invisibile, visto che entrambi non possiamo ignorare ciò che è accaduto l’altra mattina. In fondo conviene anche a me far finta di nulla, con la speranza che il tempo riaggiusti le cose anche nelle nostre interiorità.

Così l’altro giorno, mentre stavo rincasando, erano circa le sette di sera, in fondo al piazzale che attraverso per arrivare al nostro palazzo, vedo un gruppetto di ragazzi. Stavano semi-nascosti da un muricciolo e a mano a mano che avanzavo mi apparivano sempre più visibili. In mezzo al gruppo ho scorto anche mio figlio. Stavano passandosi uno spinello. L’ho capito dai gesti, dal loro fare circospetto; erano così assorti nel loro rituale che non mi hanno notata. Raggiunto l’appartamento, ho sentito la disperazione invadermi. Temevo per mio figlio, vista la strada che capivo stava imboccando.

Quando mio figlio è rincasato salutandomi come sempre, io stavo cucinando. Lui è andato in camera sua. Lì l’ho raggiunto, perché volevo assolutamente affrontare l’argomento. Così gli ho detto che l’avevo visto mentre stava con quei ragazzi. Lui ha negato. Io mi sono arrabbiata, gli ho detto che con quelle stupidaggini non si va da nessuna parte.
“E dove vuoi che vada?” mi ha risposto, con un misto di sfida ma anche di rassegnazione.
Purtroppo non ho potuto fare a meno di capirlo, e con la morte nel cuore sono tornata in cucina.
Lui mi ha raggiunta. Ho notato che aveva un sopracciglio lievemente gonfio.
“Che cosa hai fatto lì?” gli ho chiesto sfiorandogli l’enfiatura con un dito. Mi ha risposto che era successo in palestra durante l’allenamento pugilistico. Allora l’ho preso per un braccio e gliel’ho stretto. “Non pensi che ci possa essere qualcosa di meglio nella vita che prendere pugni e farsi del male?”. Non mi ha risposto. Gentilmente si è divincolato il braccio e si è seduto a tavola. Abbiamo mangiato in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.

Dopo cena mio figlio si è alzato dicendo che sarebbe uscito.
“Non andare” gli ho detto perentoria.
“Dai mamma falla finita” mi ha detto lui un poco spazientito.
“No, se devi andare in un sottoscala a fumare o a bere è meglio che resti in casa.”
Allora ha fatto un gesto seccato ed è andato in camera sua per prendere il giubbotto. L’ho raggiunto nella stanza e gli ho messo le mani addosso, l’ho strattonato.
“Non voglio, non voglio!” ho insistito disperata.
“Mamma lasciami andare” ha protestato lui ed esasperato mi ha spinto indietro facendomi cadere sul letto, senonché io mi sono aggrappata a lui facendogli perdere l’equilibrio. È caduto sopra di me con la testa sopra la mia spalla. Allora gli ho allacciato le braccia attorno al collo e gli ho ripetuto piano, vicino all’orecchio:
“Non ti lascio andare.”

 Lui è rimasto inerte, senza reagire. Siamo rimasti così, immobili per qualche lungo attimo. Quando l’ho lasciato mi sono accorta che piangeva. Invece che rialzarsi, si era girato per sdraiarsi sulla schiena accanto a me, gli occhi chiusi, il viso pallido. Sopraffatta da una inesprimibile dolcezza gli ho dato un bacio sulla guancia, stringendomi a lui. Continuava a tenere gli occhi chiusi. Temevo che li avrebbe infine riaperti e poi, di scatto, si sarebbe rialzato per uscire. Non avrei avuto molte possibilità di trattenerlo. Invece si è limitato a rimanere lì sdraiato sul letto accanto a me. Io gli avevo appoggiato la testa sulla spalla e mi sono accorta che la patta dei pantaloni era notevolmente in rilievo.

Stavolta non c’è stato bisogno di una muta richiesta da parte sua. Sono scesa con la mano su quel rigonfiamento. Mentre passavo la mano sulla tela ruvida e rigonfia l’ho baciato ancora sul viso. Lui non si è mosso, come l’altra volta restava immobile, come in ascolto.
Gli ho passato la mano sotto il maglione ad accarezzare la pelle nuda. Contemporaneamente ho voluto baciargli il sopracciglio gonfio e nel farlo mi sono portata un poco sopra di lui. Lui ha stampato la faccia sul mio seno. Sentire il suo respiro passare caldo attraverso la stoffa è stata un’emozione che ricordo ancora, e che si è peopagata a tutto il mio corpo. L’ho stretto a me baciandolo tra i capelli, mentre continuavo a carezzarlo sulla prominenza dei pantaloni che diventava sempre più dura.
Di colpo mi sono risoluta. Mi sono alzata e ho spento la luce della stanza. Ora solo la luce della cucina filtrava nella penombra. Mi sdraiata di nuovo accanto a lui slacciandomi il vestito sul petto, che ora gli offrivo coperto solo del reggiseno. Il suo volto si è immerso di nuovo nella mia carne, schioccandomi baci sulla pelle ora parzialmente esposta. Intanto ho abbassato ancora la mano sulla sua patta. Ho cominciato risolutamente a sbottonargli i pantaloni fino a che sono penetrata con le dita sulla flanella degli slip, che fasciavano il membro turgido. Ho passato le dita sotto l’elastico per afferrargli il pene. Bruciava, ed era teso e duro come un arco. L’ho liberato completamente e ho cominciato a masturbarlo. L’ho fatto intenzionalmente, deliberatamente, senza mezze misure. Facevo scivolare la mano su e giù, dal glande fino alla radice dei testicoli mentre il suo ansito aumentava. Le sue braccia mi hanno abbracciata, mentre la sua testa rimaneva schiacciata e nascosta sul mio petto. Velocemente mi sono spacciata la chiusura del reggiseno. Dopo un attimo le labbra umide e ardenti si sono posate sulle mammelle completamente nude. Non so dire l’emozione che mi è venuta da quel contatto, la quale si è propagata come liquido in tutto il mio corpo. Ho sentito le mie ciabatte cadere sul pavimento. Ho continuato a stringergli il pene che diveniva sempre più grosso. Ad un certo punto la sua mano è scesa verso il mio ventre ma, nonostante mi facesse piacere, l’ho presa e l’ho riportata più in alto. Ho continuato ad accarezzargli il pene, mentre i suoi baci sulle mammelle si moltiplicavano ed io facevo piovere tra i suoi capelli i miei. Ho sentito il suo respiro contro il mio petto farsi più frequente. D’improvviso ho sentito la sua bocca aprirsi di scatto, come se stesse per mordermi, invece ne è uscito un grido strozzato, come un lamento. Tutto il suo corpo si è contratto in uno spasimo e poi un altro spasimo e poi un altro e un altro ancora, mentre fiotti si seme bruciavano sulla mia mano, ricadendo sul mio vestito e sul suo ventre.

Finalmente si è rilassato, spossato, abbandonandosi sul materasso. Io, accanto a lui, palpitavo di tutte le emozioni del mondo. Stavolta non ho voluto scappare. Gli ho baciato il viso più volte con tutta la dolcezza di cui sono capace. Senza badare alla mano ancora impiastrata di seme, gli ho accarezzato il ventre fin sul torace sollevandogli il maglione e baciandolo sulla pelle nuda e odorosa. Sono tornata ad accarezzarlo il pene, già più morbido. Ho sentito che quest’ultima carezza era la più colpevole di tutte, perché più consapevole e complice e meno necessaria. Mio figlio sospirava quieto con gli occhi chiusi. Mi sono accorta di essere ancora a seno nudo, perché la saliva di cui era cosparso si andava raffreddando.

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